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Malpractice medica: cos’è?

Una guida che chiarisce alcuni punti importanti: cosa è la malpractice medica e come funzione la legislazione italiana in materia. Un approfondimento indispensabile per chiunque si ritenga vittima di malasanità o di un errore medico.

Spesso si sente parlare di malpractise medica, ma non tutti hanno chiaro il significato di questo termine anglosassone che riconduce al concetto di malasanità in lingua italiana. Prima di addentrarci nello specifico però occorre chiarire che quando si parla di medicina, si parla di una scienza che non è sempre esatta come in molti sostengono e non può essere esatta in quanto non si tratta di mera teoria, ma studi basati su casi di studio. Tali casi di studio si basano a loro volta sulle singole persone e poiché ogni individuo ha una sua peculiarità e un suo comportamento davanti alle patologie e alle cure, non si può asserire che la medicina si basi su risultati assoluti. Detto questo, resta la realtà di evidenti casi di malasanità dovuti ad abusi, omissioni, leggerezze, carenze strutturali e mancanza di deontologia e professionalità.  In tutti questi casi chiunque si ritenga vittima di un errore medico o di malasanità ha diritto al risarcimento danni.

Risarcimento danni e malpractice medica, iniziamo a fare luce

Iniziamo col chiarire il significato del termine medical malpractise. Come detto si tratta di un termine anglosassone che semplicemente traduce il nostro “malasanità”.

Ma cerchiamo di essere chiari:

Ci troviamo di fronte ad un caso di malpractice quando abbiamo un soggetto che fa ricorso a un servizio medico (cure) e un soggetto erogatore (medico, struttura ospedaliera) che per diversi motivi non rispetta le linee guida e cagiona un danno al richiedente la prestazione.

Facciamo un esempio.

Se un paziente ha un braccio fratturato, si reca al pronto soccorso e riceve una visita frettolosa per cui la diagnosi è errata (non viene effettuata una lastra, oppure deve attendere troppe ore per essere visitato e il suo caso si aggrava), si rientra in un caso di malasanità.

Le cause della malpractice in sanità sono quindi imputabili a:

  • Carenze strutturali.
  • Omessa o errata diagnosi.
  • Errori pratici in operazioni o cure.

Nel primo caso si parla di una competenza inadeguata, quindi di una struttura carente, strumentazione carente o inefficiente, personale carente.

Nel secondo caso, invece, si parla di errore medico, quindi di una diagnosi sbagliata, non conforme al caso, frettolosa, priva di adeguate indagini, tardiva.

Nel terzo caso ci si riferisce a trattamenti che peggiorano la situazione del paziente, a volte in modo irreversibile, come per esempio quando si viene operati a un arto invece che a un altro.

Non cambia molto il discorso per quanto riguarda la malpractise infermieristica. In base al decreto 739/94 l’infermiere è un professionista intellettuale, autonomo, competente e responsabile – sia che svolga la sua attività nelle strutture sanitarie private o pubbliche, oppure a domicilio come libero professionista. Inoltre, in seguito alla legge 42/1999, l’infermiere ha assunto una maggiore autonomia dal punto di vista dell’operatività, e di conseguenza ha anche una maggiore responsabilità. Quindi il rischio di denuncia per malpractise infermieristica vale anche per questa figura professionale.

Ma quali sono le cause di questo tipo di malasanità imputabile agli infermieri?

Ebbene, in questo caso all’origine vi può essere:

  • Un sovraccarico di lavoro.
  • Errori o carenze nella documentazione clinica del paziente.
  • Mancanza di significativa comunicazione tra l’equipe sanitaria.
  • Preparazione insufficiente del professionista

La medicina difensiva e la Legge Gelli

Purtroppo i casi di malasanità oggigiorno non sono pochi. Ed hanno portato delle conseguenze a livello sia civile che penale sia per i medici che per le strutture ospedaliere.

Molti professionisti hanno infatti iniziato ad attenersi scrupolosamente (talvolta anche in modo eccessivo) alle linee guida e a praticare la cosiddetta medicina difensiva: ciò significa che si comportano, nello svolgere la loro opera professionale, in modo da difendersi – preventivamente – da possibile cause di malpractice.

Questo comportamento ha di fatto peggiorato le prestazioni sanitarie offerte, sempre più standardizzate, e non ha avvantaggiato in alcun modo i pazienti danneggiati.

La Legge Gelli, in tal senso, si è prefissata di porre rimedio a tale tendenza imperante, sgravando il medico (la persona fisica, non la struttura ospedaliera) di molte responsabilità.

Come?

Adducendo la responsabilità del medico ospedaliero – se non ha un contratto d’opera col paziente – all’ambito della responsabilità extracontrattuale. In questo modo il medico è obbligato a risarcire il paziente solo nel caso in cui vengano provati tutti gli elementi che costituiscono l’illecito aquiliano, in poche parole lonere della prova ricade, in tale specifico caso, a carico del paziente. La responsabilità della struttura sanitaria, sia pubblica che privata, rimane invece di tipo contrattuale, ex art. 1218 c.c., quindi una modalità molto più favorevole al paziente – danneggiato.

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La Legge Gelli introdusse anche ulteriori novità, al fine di poter definitivamente attuare un sistema di risarcimento, per i pazienti danneggiati, ancora più efficace.

La Legge quindi opera su tre fronti: penale, civile e amministrativo:

  • In ambito amministrativo viene creata la figura del Garante del diritto alla salute (art. 2) che potrà essere richiesto gratuitamente dai destinatari delle prestazioni sanitarie per eventuali segnalazioni anche anonime di disfunzioni del sistema sanitario e sociosanitario, figura che potrà quindi agire a tutela del richiedente la prestazione. Viene poi istituito un Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente in ogni regione, senza alcun onere ulteriore, che ha come compito quello di raccogliere i dati regionali su rischi ed eventuali eventi avversi inerenti il contenzioso per poi trasmetterli all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza in sanità (organo istituito e disciplinato secondo art. 3). Vi sono poi obblighi di trasparenza per quanto riguarda le prestazioni sanitarie erogate dalle strutture pubbliche e private secondo i quali (art. 4) la direzione sanitaria è obbligata a fornire in tempi rapidi tutta la documentazione sanitaria inerente il paziente.
  • Per quanto concerne le modifiche in ambito penale, l’art. 5 regola la responsabilità penale degli esercenti la professione sanitaria. Si stabilisce quindi che tali soggetti debbano attenersi alle buone pratiche clinico-assistenziali raccomandate dalle linee guida, regolate da Decreto ministeriale e inserite nel Sistema nazionale per le linee guida. Fino all’applicazione della Legge Balduzzi, a determinare la colpa penale era il solo art. 43 del codice penale. Conseguenza di ciò era che anche la colpa lieve poteva assumere una certa rilevanza criminale. In questo modo il contenzioso nei confronti dei medici era aumentato notevolmente così come le condanne penali. Dal 2012, con la Legge Balduzzi (l.n. 189/2012) si prevedevano due requisiti per determinare l’irrilevanza penale del fatto illecito colposo commesso dal medico: il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ed inoltre lassenza di colpa grave. Ma non era tutto così chiaro come poteva sembrare. In seguito alla Legge Gelli è stato abrogato l’art. 3 ed è stato modificato l’art. 590-sexies c.p. “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”. Scompare quindi ogni riferimento al concetto di colpa grave, mentre resta il rispetto delle linee guida e buone pratiche.
  • Nell’ambito civile, invece, mediante l’art. 7 viene stabilito che vi sia una partizione delle responsabilità tra ente ospedaliero e medico. La struttura ospedaliera ha dunque una responsabilità contrattuale (ex art. 1218 cod. civ.) mentre il medico risponde in via extracontrattuale se non ha in essere un’obbligazione contrattuale con il paziente.

Tra le altre novità (art. 8) anche l’obbligo di tentare una conciliazione tra l’ente, l’assicurazione, ed il soggetto danneggiato. Vi è inoltre l’obbligo di sottoscrivere una polizza (sempre per quanto riguarda le strutture sanitarie pubbliche o private) per la copertura della responsabilità verso terzi e verso gli esercenti le professioni sanitarie. Anche il professionista sanitario è obbligato a sottoscrivere una polizza assicurativa se svolge la professione al di fuori delle citate strutture.

Per quanto riguarda la prescrizione della malpractise medica, resta il termine generale di 10 anni (tranne in casi specifici in cui si riduce a 5) per presentare la richiesta di risarcimento danni .

Come avrai capito, il tema è estremamente complesso e anche per questo è sempre bene avere al proprio fianco un avvocato competente in materia che possa prima verificare se il tuo caso può davvero configurarsi come malpractice e poi possa consigliarti passo dopo passo.

Se credi di avere bisogno di sapere più perché hai avuto la sfortuna di essere vittima di malpractice medica (o qualcuno vicino a te lo è stato), allora contattaci per avere una approfondita pre-analisi multidisciplinare del tuo caso.

 

La cessione del credito per il carrozziere

Se sei un carrozziere ed hai trovato questo articolo, probabilmente hai bisogno di informazioni sulla “cessione del credito” oppure hai avuto dei problemi a gestire delle pratiche con l’assicurazione dei tuoi clienti in questo ambito.

In entrambi i casi, leggendo quello che trovi qui di seguito, in pochi minuti avrai accesso a ciò che cerchi.

Esiste una prassi molto diffusa che prevede la cessione, alla carrozzeria riparatrice di propria fiducia, del credito costituito dall’importo delle riparazioni eseguite in favore del cliente che ha subito un sinistro stradale.

Questa cessione avviene normalmente così:

  • Il cliente-danneggiato si reca presso una autofficina o una carrozzeria per far riparare la propria auto o la propria moto dopo un incidente.
  • Il carrozziere si rende disponibile, anziché richiedere il pagamento immediato della riparazione, a ricevere la sottoscrizione di un contratto di “cessione del credito”, divenendo dunque “cessionario” (= cioè il soggetto che ha diritto di riscuotere i soldi da parte dell’assicurazione) del credito costituito dall’importo delle riparazioni.
  • Il carrozziere-riparatore potrà quindi richiedere, poi, il pagamento del credito direttamente alla compagnia assicuratrice, eventualmente maggiorato di spese accessorie.

Un secco “NO” ai modelli di cessione “prestampati”

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Si sono susseguite nel tempo varie pronunce e sentenza, sia di Tribunali locali che di Cassazione, che hanno in larga parte legittimato la pratica della cessione del credito alle carrozzerie.

Tuttavia, la materia resta densa di problematiche. E’ molto semplice – per un carrozziere che giustamente pensa a far bene il proprio lavoro e non tanto alle scartoffie – cadere in errore e poi trovarsi alle prese con un credito che nessuno vuol pagare. Dover far fronte magari ad una causa civile di tre o quattro anni, senza spesso avere neanche la certezza di chi sia – nel concreto – il soggetto a cui poter richiedere il pagamento (il cliente, la sua assicurazione, o entrambi?).

Purtroppo molte carrozzerie continuano a far sottoscrivere moduli di cessione prestampati, in bianco o parzialmente compilati.

Questo è il primo passo per incappare in errori e problemi futuri: se sorgeranno contestazioni, ecco che il riparatore dovrà farsi strada nei meandri di una prassi normativa e giurisprudenziale assai varia ed articolata, armato solamente dello “scritto” di cessione del credito che si è fatto rilasciare dal cliente.

Più sarà malfatto ed incompleto, più i problemi diverranno insormontabili.

Le assicurazioni fanno guerra ai carrozzieri non convenzionati “freelancers”

Le assicurazioni, che devono normalmente onorare i crediti ceduti, hanno ovviamente tutto l’interesse a sollevare enormi pletore di eccezioni, sia stragiudiziali che processuali, per non pagare. E anche per scoraggiare la cessione tra carrozziere-non-convenzionato e cliente privato.

Se invece la cessione avviene nell’ambito di convenzioni tra assicurazione e carrozzeria, ecco che allora essa diviene lo strumento più giusto e preferibile… Perchè in tal caso è l’assicurazione ad avere il perfetto controllo di tutta l’operazione, e soprattutto può giocare al ribasso nel pagare l’opera dei carrozzieri aderenti alle suddette convenzioni.

Ma per le carrozzerie “freelancers” non aderenti?

Per loro il mercato è sempre più duro.

Detto in una battuta:

La cessione del credito, quando avviene tra carrozziere di fiducia non convenzionato e rispettivo cliente, è contrastata con ogni mezzo dalle compagnie assicurative, poiché impedisce loro di interferire, prendendone il controllo, con le dinamiche del mercato dell’autoriparazione.

Questioni processuali e lentezza delle cause civili

Ecco alcune delle questioni sollevate – ancora oggi – dalle assicurazioni per non onorare i contratti di cessione del credito:

  • Il credito sarebbe “futuro ed incerto” al momento della sottoscrizione della cessione, perchè non ancora quantificato. Il cliente, infatti, normalmente, firma la cessione prima di sapere l’importo del credito. Questa eccezione è facilmente contestabile utilizzando contratti di cessione specifici e personalizzati.
  • Esistono variegate clausole, inserite nei contratti assicurativi, che tendono a limitare la cessione del credito da parte dell’assicurato a favore di terzi, ovvero a penalizzare il ricorso a riparatori non convenzionati con l’impresa di assicurazione. Per ogni cliente, quindi, occorre controllare il contratto assicurativo.
  • Il carrozziere non sarebbe legittimato ad agire in giudizio contro l’assicurazione per varie ragioni riguardanti presunte nullità del contratto di cessione del credito (cfr. artt. 1260 c.c. e segg. del codice civile). La maggior parte dei tribunali, ad oggi, non accoglie questo genere di eccezioni. Tuttavia le assicurazioni le svolgono ancora molto spesso, spesso al solo fine di ritardare gli esiti delle cause civili ed i conseguenti pagamenti.
  • La carrozzeria non potrebbe far valere l’acquisito diritto di credito nei confronti dell’assicuratore del danneggiato, perchè, nei casi in cui sia applicabile il c.d. “risarcimento diretto”, non potrebbe agire ai sensi del D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 144.
  • Il contratto di cessione del credito sarebbe nullo perché contrario alle norme del Testo Unico Bancario (in particolare, all’art. 106). Secondo le assicurazioni, quindi, i carrozzieri che fanno sottoscrivere cessioni del credito sarebbero “intermediatori bancari e creditizi non abilitati”. Ammetto che questa tesi è davvero creativa e fantasiosa, ed ha poche chances di essere realisticamente accettata dai tribunali. Ma contribuisce ad implementare la lentezza cronica delle cause e l’incancrimento dei crediti in sofferenza.

Alcuni spunti positivi

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Questo articolo prescrive che in caso di cessione del credito derivante dal diritto al risarcimento dei danni causati dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, la somma da corrispondere a titolo di rimborso delle spese di riparazione dei veicoli danneggiati è versata previa presentazione della fattura emessa dall’impresa di autoriparazione abilitata ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 122, che ha eseguito le riparazioni”.

La norma, così come formulata, finalmente decreta (non certo esplicitamente, ma ad esito di un semplice ragionamento deduttivo) una generica liceità della cessione del credito.

Resta comunque aperta la spinosa questione della legittimazione ad agire della carrozzeria contro l’assicurazione:

  1. Potrà agire con la più spedita procedura prevista dal codice delle assicurazioni in caso di indennizzo diretto?
  2. Oppure potrà solamente agire, in forza dell’atto di cessione, secondo la normativa più stringente ordinariamente prevista dal codice civile (artt. 1260 c.c. e segg.)?

Ho molti esempi pratici, nel passato, di norme apparentemente risolutrici che invece sono state destinatarie di continui attacchi e strali. Le assicurazioni – forti del loro oligopolio – continueranno a non digerire le cessioni attuate delle carrozzerie “freelancers”.

Quali altre eccezioni si inventeranno, lo vedremo nei prossimi mesi ed anni.

Cosa posso fare per Te e per i Tuoi clienti?

Posso aiutarti a redigere nel modo più corretto il contratto di cessione del credito che presenterai al Tuo cliente.

Posso assisterti nel recupero, dalle assicurazioni, dei crediti per le riparazioni che hai effettuato.

Sarei lieto di offrirti una prima consulenza, nel caso in cui tu abbia svolto dei lavori di riparazione ad un veicolo danneggiato a causa di un incidente, ma non abbia ancora ricevuto il pagamento da parte dell’assicurazione del tuo cliente. Non ti farò perdere tempo, e ti assisterò nel modo più pratico e semplice possibile.

Il mio studio inoltre è in grado di assistere i tuoi clienti per il recupero del danno biologico a seguito del sinistro.

Possiamo infatti:

  • Offrire ai tuoi clienti una prima consulenza telefonica gratuita, veloce ed efficace.
  • Gli assistiti non saranno tenuti ad anticipare nessun onorario legale sino alla conclusione positiva della vertenza.

Grazie alla collaborazione di avvocati esperti nel campo della responsabilità civile e medici specializzati, li assisterò passo dopo passo al fine di ottenere la liquidazione dei danni che lui e i suoi trasportati hanno subito.

Hai qualche dubbio o domanda?

Non esitare a contattarci , saremo felice di risponderti  per venire incontro alle tue esigenze.

Colpa medica: come facciamo a capire se c’è o no

Per chi ha dubbi se il danno che ha subito sia da attribuire a un caso di malasanità, vogliamo raccontare la vicenda che vede come protagonista un uomo che è stato operato alla prostata ma che durante l’intervento ha subito il perforamento della vescica e conseguentemente ha subito l’asportazione della stessa con stomizzazione. C’è stata colpa medica in questo caso?

Colpa medica, come si fa a capire se c’è o non c’è

Il caso di cui vogliamo parlare riguarda un uomo a cui era stato diagnosticato un tumore alla prostata. Si tratta di un disturbo ormai molto frequente, quasi sette milioni di uomini ne vengono colpiti nel nostro Paese. Il problema di questa tipologia di tumore è che non da sintomi ben visibili fin da subito e quando ci si rende conto di avere qualcosa che non va la malattia è quasi sempre in fase avanzata.

Tuttavia, con una pronta e corretta diagnosi sono molte le soluzioni che si possono adottare per garantire una qualità della vita buona a chi ne è affetto, aumentando anche la speranza di vita.

All’uomo era stato dunque consigliato un intervento di prostectomia da eseguire con intervento robotico, ovvero mediante l’ausilio di braccia robot (un’operazione decisamente meno invasiva rispetto quella chirurgica). L’intervento, a detta del personale medico, era andato bene.

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Un paio di giorni dopo l’intervento però l’uomo aveva iniziato ad avere problemi alla vescica. La minzione era frequente e dolorosa. In principio si era pensato a un tumore, ma in seguito a cistoscopia era emersa una fistola sulla parete vescicale causata da una lieve perforazione della parete. La preoccupazione era quindi scesa e il problema era stato trattato – sempre a detta dei medici – nel modo più opportuno.

Col passare del tempo però l’uomo avvertiva un disagio sempre più pressante, un fastidio incessante che sovente si trasformava in vero e proprio dolore. Ogni volta che però si sottoponeva alla visita medica il responso era sempre lo stesso: la fistola che tardava a guarire.

Inutile prolungare il racconto (che è purtroppo ben lungi da essere un unicum…), ma basti dire che si sono succeduti dolori e visite, sempre con la medesima diagnosi.

Fino a quando l’uomo non ha effettuato una seconda visita presso un professionista privato.

Spaventoso il responso: la vescica era stata bucata forse per un errore durante lintervento di rimozione della prostata, e poiché la ferita non guariva, andava rimossa. L’uomo è stato così stomizzato, quindi dal momento dell’intervento ha dovuto indossare in modo permanente una sacca esterna per il contenimento delle urine.

Un grave problema fisico e psicologico

Si può quindi immaginare quale lo stato d’animo dell’uomo che di punto in bianco si è trovato a dover affrontare una situazione drammatica e senza possibilità di miglioramento. Come è facile immaginare, subire un tipo di intervento così invasivo va a modificare seriamente la qualità della vita, dal quotidiano alle relazioni sociali. Esattamente quello che è accaduto al protagonista della nostra storia.

Purtroppo la nuova situazione ha portato l’uomo a un forte stato di depressione per il quale ha dovuto iniziare una terapia psicologica.

La domanda che si è posta la famiglia, quindi, è stata se fosse possibile riuscire a capire se il danno subito dall’uomo fosse stato cagionato a causa di un errore medico o a un’esecuzione imperfetta dellintervento e, nel qual caso, se gli spettasse un risarcimento.

Dimostrare il nesso causa effetto

Ovviamente in questa vicenda ci sono tutti gli estremi, per lo meno, per un consulto legale. In queste circostanze è inutile tenersi il dubbio con mille se e mille ma, l’unica cosa che si può fare per capire se spetti o meno un risarcimento danni, è esporre nel dettaglio la vicenda a un avvocato. Se vi fossero gli estremi allora si procederà con quello che è l’iter necessario per dimostrare un caso di malpractice.

Ci sono diversi legali oggi che offrono una consulenza gratuita e accettano lincarico solo se ritengono che vi siano possibilità di vittoria, e questo è un atteggiamento molto corretto nei confronti del cliente. Molti, purtroppo, rinunciano a un legale perché temono parcelle elevate, ma oggi non è più come una volta e ci sono diversi sistemi per stabilire l’onorario del legale, come per esempio il forfait dove si paga all’avvocato una percentuale di quanto ottenuto in risarcimento.

Occorre quindi un esame presso un medico legale di parte che possa fare una perizia e stabilire se vi sia la possibilità che il danno subito sia stato cagionato da negligenza o errore medico.

Nel nostro caso il medico legale ha riscontrato una negligenza e pertanto si è proceduto per vie legali.

Dopo una intensa trattativa extragiudiziale, è stato necessario procedere con un accertamento tecnico preventivo, che ha portato, nella sua fase conciliativa, ad un congruo accordo liquidativo.

L’uomo è stato così risarcito per il danno subito e ha potuto effettuare diverse terapie che gli hanno restituito una vita più accettabile se non pari a quella che gli è stata tolta.

Se ti ritrovi nella necessità di un parere legale perché anche tu sei stato vittima di un caso di malasanità (o lo è stato un tuo parente), non esitare a contattarci: puoi avvalerti della chance di una pre-analisi multidisciplinare (legale e medico-legale) del tuo caso.

 

Responsabilità civile “ordinaria” e responsabilità medica: tre grandi differenze

Cerco, in questo articolo, di rispondere a molte delle domande che i clienti mi rivolgono ciclicamente:

  • Perchè le cause di malasanità sono più “difficili” di quelle sugli incidenti stradali?

  • Perchè le cause di malasanità costano di più?

  • Cosa vuol dire che “l’onere probatorio”, nelle cause di malasanità, è a favore del paziente?

Responsabilità civile “ordinaria” o responsabilità medica?

Quella che – per semplificare – io definisco responsabilità civile “ordinaria” è in realtà la classica responsabilità che i giuristi chiamano extracontrattuale o “aquiliana”, derivante cioè dalla Lex Aquilia, antico plebiscito risalente al 286 a.c., ovvero la prima legge scritta in materia del risarcimento del danno di proprietà del dominus in epoca romana antica.

Questo tipo di disciplina, che regola in linea generale il diritto al risarcimento del danno extracontrattuale, è stata trasfusa nel nostro attuale ordinamento, negli articoli 2043 e seguenti del codice civile.

Possiamo dire che la “responsabilità medica” è una specie del genere “responsabilità civile”.

La responsabilità medica, tuttavia, sino agli interventi legislativi degli ultimi anni (Legge Balduzzi, ma soprattutto Legge Gelli) non fu storicamente oggetto di attenzione legislativa, bensì la sua definizione, attuazione e regolamentazione, fu principalmente demandata alla Giurisprudenza, cioè alle decisioni di merito dei Tribunali e a quelle in diritto della Corte di Cassazione.

Vediamo, ora, in cosa differisce la responsabilità medica da quella Aquiliana.

Prova della responsabilità/colpa

Ecco la sintesi:

Naturalmente questo è un elemento a favore del paziente, il quale non dovrà fornire una prova precisa e circostanziata, ma potrà limitarsi a:

  • Provare che il fatto sia avvenuto (ad esempio: un intervento chirurgico).

  • Provare che il fatto abbia provocato il danno (questa fase è molto più complessa di come può apparire, ma lo vediamo nel prossimo paragrafo).

Preciso che l’art. 1218 (che è cardine in tema di responsabilità medica ed attiene ad una responsabilità di tipo contrattuale), in estrema sintesi e semplificando al massimo, secondo il disposto della legge Gelli, si applica:

  • Alla struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa.

  • Alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina.

Come è evidente, restano solo poche situazioni in cui questa disciplina, di favore al paziente, non risulta applicabile.

Non sopravvalutare il “favore della prova”

Nella pratica giornaliera presso nostri Tribunali – ve lo dice uno che si occupa di questa materia da oltre quindici anni – questo declamato “favore della prova” al danneggiato non conferisce affatto maggiore semplicità e speditezza ai processi.
Il motivo?
Siamo tutti umani e imperfetti: parti processuali, medici, avvocati e magistrati.
Non basta che il paziente si presenti e dica “sono entrato in ospedale con un problema, e ne sono uscito peggio”.
Semplicemente: non è sufficiente.
In fase processuale infatti si pretende che chi agisce in causa per ottenere qualcosa fornisca dei chiari elementi che giustifichino le proprie pretese.
Di contro va anche tenuto in conto che gli enti ospedalieri si difenderanno – comprensibilmente – adducendo la sussistenza di complicanze, di elementi fattuali esterni, di casi fortuiti, di problematiche organizzative…
Il buon difensore non deve sottovalutare questo genere di difese, trincerandosi dietro il principio del “favore della prova”, ma deve, al contrario, contestare precisamente le eccezioni avversarie. Altrimenti, perderà la causa.

Prova del nesso di causa o nesso eziologico

Ecco la sintesi:

Anche questo aspetto sembrerebbe favorevole al danneggiato. Ma vediamo nel dettaglio alcune insidie.

Innanzitutto, domandiamoci: perché la legge impone un minore grado di certezza alla prova in campo di colpa medica?

Perché una tale prova è, per sua natura, difficilissima da raggiungere.

Immaginiamo un caso di omessa diagnosi.

Occorrerà provare:

  • Che la diagnosi poteva essere eseguita prima (con quali strumenti? Quanto tempo prima? Cosa dicono le linee guida?).

  • Che la diagnosi tardiva ha causato un diverso (e peggiorativo) decorso della malattia (ha abbreviato la vita del paziente? Gli ha causato danni che altrimenti non avrebbe avuto? L’operazione chirurgica ha procurato postumi permanenti diversi e maggiori, rispetto alla media, a seguito di una operazione siffatta?).

È qui che viene in auge il ruolo importantissimo del collegio medico di parte, costituito da medico legale e almeno uno specialista, che deve dare una risposta alle suddette domande.

Studiando a fondo la vicenda clinica, adducendo studi scientifici, medie matematiche, e quant’altro necessario a supportare la richiesta di risarcimento del danno. Ecco perché le perizie mediche, e la relativa assistenza, hanno un costo più elevato in questa materia (lo spiego meglio in questo articolo, che ti consiglio di leggere) ma possono fare la differenza tra vincere e perdere una causa.

Lo stesso ruolo dell’avvocato è marcatamente più impegnativo, rispetto ad una causa relativa ad un sinistro stradale.

È infatti molto più semplice argomentare sulla responsabilità di un tamponamento (abbastanza ovvia, e comunque ci aiuta il codice della strada, con norme piuttosto precise) rispetto a scandagliare gli elementi di base di una colpa medica (come abbiamo visto, non vi sono regole tecniche determinabili, ma ci si affida a pochi criteri legislativi, e soprattutto alle pronunce delle Corti e dei Tribunali).

Contenuto del concetto di neminem laedere (= non nuocere a nessuno)

Al medico, che di norma agisce nel campo della responsabilità contrattuale, sono ovviamente richiesti maggiori oneri.

Facciamo un esempio.

Se Tu stai andando in auto al lavoro, il tuo onere è solamente quello di guidare prudentemente e non danneggiare chicchessia. Operi in un regime di responsabilità extracontrattuale, ciò significa che non hai un legame contrattuale con gli altri utenti della strada, devi solo limitarti a non violare la loro sfera giuridica, a non danneggiarli.
Il medico invece, svolge le sue prestazioni in applicazione di un vero e proprio contratto sociale qualificato , quindi ha doveri ed oneri maggiori.
Se entri in un ospedale, non è sufficiente che chi di dovere non ti danneggi: occorre che egli operi attivamente per soccorrerti ed aiutarti.

Responsabilità medica: materia difficile, se non c’è esperienza

Quando ci si addentra in una causa per malpractice media è molto facile (per un avvocato alle prime armi o che non ha affrontato molti casi in questo settore) sottovalutare gran parte degli aspetti tecnici e strategici che si annidano in ogni aspetto di gestione del contenzioso. Purtroppo la mia esperienza (e quanto ho raccontato fin qui) mi porta a concludere che questo sia uno degli errori più comuni da parte dei professionisti del mio settore – e qualcosa da cui un cittadino dovrebbe ben guardarsi. In poche parole: se Tu hai avuto la sfortuna di imbatterti in un caso di malpractice medica, non presumere che “solo perché” hai ragione tutto il procedimento scorrerà liscio verso una risoluzione equa e corretta. Allo stesso modo, non affidarti con leggerezza ad un avvocato solo perché “è un nome” o “me ne hanno parlato bene”. Piuttosto, informati e ricerca un avvocato che abbia nel suo curriculum un numero importante di incarichi nell’ambito della malpractice medica.

Risarcimento degli eredi per danno da morte. Quando il dolore non viene trattato

Quando si parla di malasanità, purtroppo, si aprono scenari che nessuno di noi vorrebbe mai conoscere. Ma nei diritti del malato rientra anche il diritto a non soffrire, ovvero ad una degenza dignitosa che tratti il dolore con terapie adatte. In special modo chi nega cure palliative al malato terminale si espone ad un illecito e per tale la famiglia può e deve essere risarcita.

Malato terminale, il diritto a non soffrire

Prima di procedere vediamo un po’ qual è la definizione di malato terminale.

Secondo il dizionario, malato terminale è colui che “entra nella fase irreversibile di una malattia mortale”.

Nel caso di malattie per le quali tutte le terapie sono ormai inutili, quindi in fase terminale, si può ricorrere alle cure palliative per poter stabilizzare la malattia e prolungare, ove possibile, la vita, oltre che naturalmente per lenire i dolori del malato terminale. Il paziente ha così diritto a non soffrire, con la pretesa di mantenere la qualità della vita restante accettabile. Di questo diritto inalienabile in Italia, rispetto al resto del mondo si parla ancora troppo poco, quasi fosse un tabù.

Cosa sono e come si ha accesso alle cure palliative

Le cure palliative constano di un insieme di trattamenti diagnostici, terapeutici e assistenziali rivolti soprattutto al malato, ma che sono rivolte anche al nucleo familiare.

A disciplinare questi trattamenti è la legge 38 del 15 marzo del 2010. Ogni singolo Stato, quindi, secondo il Consiglio d’Europa, dovrà garantire la prestazione di tali cure e assicurarsi che tutti i malati terminali vi abbiano accesso.

Gli Stati devono inoltre verificare che i parenti e gli amici siano adeguatamente supportati al fine di accompagnare il paziente terminale fino alla morte e prevedere, nel caso i parenti e gli amici non siano in grado, di fornire forme alternative e professionali di sostegno al paziente. Devono anche fornire un’efficiente assistenza a domicilio. Inoltre, devono essere garantiti inoltre eventuali trattamenti palliativi, purché il paziente lo consenta, anche se di fatto abbreviano la vita dello stesso.

Un’altra incombenza che spetta agli Stati è quella di fare in modo che per lo meno in ogni grande ospedale sia predisposto un Centro di cure palliative. Vanno inoltre sensibilizzati i cittadini per quanto riguarda il tema della medicina palliativa.

Se i medici oppongono resistenza

Quindi abbiamo una certezza: le cure palliative sono un diritto e sono normate.

Eppure, nonostante questo, si incontrano ancora, al giorno d’oggi, moltissime resistenze, perfino in quei Paesi che hanno ormai raggiunto un elevato livello di gestione della sofferenza del malato terminale. Vi sono infatti alcuni operatori e del diritto e della medicina che pensano ancora di poter applicare il loro personale discernimento al singolo caso.

Il problema fuorviante della questione è la possibilità che un determinato trattamento palliativo sia potenzialmente letale e abbrevi, a volte anche di parecchio, la vita del paziente terminale. Di cosa si tratta? Si tratta di trattamenti, per esempio oppiacei, che vengono somministrati in quelle situazioni definite talmente gravi e di grave malessere e sofferenza, da richiedere un’intensificazione del trattamento medesimo. Questo perché la dose concentrata e massiccia di oppioidi ha come effetto – talvolta –quello di accelerare la morte del paziente.

La teoria del doppio effetto

Questa teoria è stata elaborata al fine di rendere lecita la messa in pratica di trattamenti palliativi anche laddove avessero conseguenze normalmente inaccettabili ma che di fatto, non essendo cagionate in modo deliberato, divengono accettabili. Sarebbero quindi da ritenere deliberate nel caso in cui queste fossero oggetto principale del progetto d’intervento. Seguendo questo ragionamento, la somministrazione di cure palliative, anche ad alto livello, o invasive, di oppioidi ai pazienti terminali, viene ritenuta legittima, anche se appaia prevedibile che questo possa cagionare al paziente un accelerazione del sopraggiungere della morte.

Per poter soddisfare la teoria del doppio effetto devono però essere soddisfatti 5 requisiti:

  1. L’atto è raccomandato o moralmente neutro, somministrazione della morfina.

  2. Ci si pone il solo obiettivo positivo, quindi ridurre le sofferenze del paziente, non quello negativo, quindi cagionare la morte del paziente.

  3. La buona finalità non viene perseguita seguendo quella cattiva, quindi non si riduce la sofferenza del paziente accelerandone la morte.

  4. Sussiste una ragione valida in proporzione al rischio che induce al voler affrontare il rischio dell’effetto negativo.

  5. Il paziente dovrà sempre essere perfettamente informato su quelli che sono i rischi e i pericoli di un determinato trattamento palliativo, inoltre, laddove questo sia possibile, egli dovrà esprimere esplicito consenso a tale riguardo.

 

Il trattamento del dolore in Italia

Dal punto di vista della nostra Costituzione, il diritto a non soffrire trova ampio accoglimento, laddove si proclama la tutela dei diritti inviolabili dell’individuo e che, a grandi linee, sanciscono anche quelli che sono i principi del rispetto della dignità della persona. Il mancato ricorso agli strumenti che attualmente sono in nostro possesso per lenire le sofferenze del malato terminale costituisce un attentato a questa particolare prerogativa del malato (come specificato dall’art. 37 del codice deontologico medico del 1998).

Vi sono però ancora numerose resistenze in Italia dovute principalmente a fattori culturali che vedono il dolore come un sintomo della malattia e che per tanto non deve essere combattuto in quanto fine a se stesso.

Ci sono d’altronde poche strutture ospedaliere idonee e con le attrezzature adeguate per accogliere i malati terminali che desiderano trattare il dolore con le terapie adatte e, ultimo ma non ultimo, ben pochi fondi vengono investiti nella ricerca in tal senso. Anche l’utilizzo di farmaci oppioidi ha sollevato non poche controversie.

Il dolore non viene trattato? Si commette un illecito

Se le cure palliative non vengono erogate al malato terminale si commette un illecito, pertanto condannabile e il danno che ne scaturisce è motivo di risarcimento danni.

Purtroppo ancora oggi, come già abbiamo anticipato prima, vi sono medici che per il personale credo religioso, morale o umano, negano al malato terminale cure palliative che gli consentano di morire serenamente e dignitosamente.
Emblematico a tale proposito un caso accaduto a Bologna e giudicato dal relativo Tribunale.

Il protagonista era un paziente oncologico terminale che era stato ricoverato a causa della comparsa di difficoltà respiratorie importanti. Appena ricoverato, le condizioni del paziente non sembravano necessitare di cure palliative, ma dopo una settimana di degenza le condizioni erano ben cambiate e il paziente mostrava un quadro clinico tale che richiedeva tali trattamenti. Questi però non venivano somministrati.

In seguito alla morte del malato i familiari presentavano denuncia contro il medico e l’ospedale, mettendo in rilievo come le cure palliative erano state negate intenzionalmente dal medico primario a causa di sue specifiche condizioni etiche.

Il CTU rilevava quindi che il paziente, negli ultimi giorni di vita, necessitava assolutamente di cure palliative dato che la difficoltàrespiratoria era sempre più evidente e accompagnata anche da agitazione psicomotoria con la quale il paziente chiedeva di morire.

La conclusione del CTU era dunque che i sanitari del nosocomio bolognese avevano violato le Linee Guida relative a simili circostanze e che tra sofferenza patita dal paziente e mancata erogazione delle cure palliative vi era una correlazione causale.

La sentenza? Medico e ospedale condannati a risarcire gli eredi del paziente: il Giudice aveva preso atto della normativa, la legge n° 38 del 2010, che obbliga le strutture sanitarie a prestare assistenza ai pazienti e ai loro familiari al fine di tutelarne la dignità (del malato) e migliorarne la qualità della vita fino al termine di essa.

Risarcimento per danno morale

A essere stato risarcito dunque, è stato il danno morale, che ristora la lesione alla dignità della persona in conseguenza alla sofferenza subita ingiustamente negli ultimi giorni di vita per non aver potuto fruire dei trattamenti palliativi.

Il danno non può essere ascritto all’ambito del danno non patrimoniale biologico, ma bensì va inteso come danno morale per l’ingiusta sofferenza patita.

Il risarcimento danni viene nel caso di cui sopra è stato quindi liquidato alla vedova e ai figli della vittima secondo le Tabelle di Milano del 2016 dove vi è anche una sezione dedicata alla stima del danno terminale. Inoltre, la vedova ha ottenuto un risarcimento iure proprio per il danno biologico subito a causa delle sofferenze del coniuge alla quale la stessa donna aveva assistito senza poter fare nulla.

Incarico all’avvocato: empatia e fiducia sono fondamentali

C’è un criterio per decidere quale sia l’avvocato adatto a te ed al tuo caso? Ovviamente a priori è difficile capire se un determinato professionista fa per te o meno, ma ci sono alcuni tratti e caratteristiche dell’avvocato che sono fondamentali e possono incidere sensibilmente sulla buona o cattiva riuscita dell’eventuale percorso legale che andrai a intraprendere. Inoltre, in questo articolo approfondiamo anche cosa significa conferire il mandato all’avvocato e come fare (se necessario) a revocarlo.

Incarico all’avvocato: fondato sulla fiducia

A dirlo è l’art. 35 del Codice Deontologico Forense: “Il rapporto con la parte assistita è fondato sulla fiducia”. La prima cosa che devi fare è andare a parlare con un legale. Ci devi andare di persona e devi sentirti a tuo agio fin da subito. Devi sentirti libero di raccontargli il tuo caso, fin nei dettagli, in modo che possa valutare quante probabilità di vittoria ci siano. Nessun velo, nemmeno in quelle situazioni delicate, come per esempio può essere un caso di malasanità.

Per esempio, ci sono diversi casi di malpractice medica legata agli interventi estetici. Per una donna, in particolare, può essere particolarmente difficile parlare di certe circostanze. Certamente spetta all’avvocato riuscire a mettere a proprio agio il cliente, ma non è solo questa la cosa da valutare.

Competenza e fiducia

Molto importante è verificare le reali competenze del professionista.

Quella che può sembrare una banalità in molte situazione non lo è affatto. Quante volte ci è capitato di sentirci consigliare un avvocato perché “molto noto” o perché “con lui mi sono trovato bene”? Purtroppo però non tutte le cause legali sono uguali e se necessiti di una difesa in un processo penale, scegliere il professionista sbagliato può rivelarsi fatale. Assicurati quindi non tanto che l’avvocato sia bravo (per sentito dire) o molto noto ma che sia davvero competente nel ramo del diritto che a te interessa.

Ugualmente importante è trovare un professionista che ci sappia ascoltare e di cui fidarsi.

Una volta un cliente che è venuto da noi, proprio in una causa penale, era stato letteralmente abbandonato dal suo legale in quanto questi aveva dichiarato che era venuto meno il rapporto di fiducia. Non stiamo qui a raccontare i dettagli, tuttavia diciamo, per far capire meglio l’episodio, che tra avvocato e cliente era venuto a mancare quel rapporto fondamentale sul quale si basa il contratto tra le due parti.

Una volta che hai individuato il professionista che ti sembra valido per la tua situazione, esponigli con molta serenità i fatti. Il tuo racconto deve essere il più preciso possibile, in modo che l’avvocato possa dirti se ci sono speranze di vittoria o meno.

Il primo incontro con l’avvocato è fondamentale

Non ti stiamo dicendo che se il primo incontro non dovesse rasserenarti devi cambiare avvocato, tuttavia, se dopo un paio di incontri dovessi sentirti a disagio o non perfettamente in sintonia col tuo legale, forse faresti bene a rifletterci un attimo. Il primo colloquio è importantissimo, sia perché puoi farti un’idea generale di quella che è la disponibilità del professionista, sia per quanto riguarda le sue competenze.

Il primo colloquio può essere a pagamento o meno, questo devi chiarirlo da subito col legale, ma non dovresti basare la tua scelta solo valutando la spesa, anche se è comprensibile che ci si debba pensare Molti professionisti prestano il loro servizio con formule particolarmente convenienti, quindi ormai chiunque può chiedere un supporto legale o una consulenza.

Se conferisci il mandato all’avvocato

Se decidi di affidare l’incarico a un determinato professionista questi dovrà darti alcune informazioni importanti, così come sancito dall’art. 40 del Codice Deontologico forense: “L’avvocato è tenuto ad informare chiaramente il proprio assistito all’atto dell’incarico delle caratteristiche e dell’importanza della controversia o delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione possibili. L’avvocato è tenuto altresì ad informare il proprio assistito sullo svolgimento del mandato affidatogli, quando lo reputi opportuno e ogni qualvolta l’assistito ne faccia richiesta.”

L’avvocato al quale viene conferito l’incarico, secondo gli articoli 1176, secondo comma e 2236 del codice civile, ha l’obbligo di diligenza, ovvero, deve sia all’atto del conferimento dell’incarico, sia durante il suo svolgimento, informare, dissuadere o sollecitare il suo cliente a seconda delle necessità che si manifestano. Ovviamente le scelte che l’avvocato reputa opportune non possono comunque mai essere imposte al cliente. L’avvocato deve agire sempre e unicamente nell’interesse del cliente.

Quando può essere revocato un mandato?

Come qualsiasi altro tipo di contratto, anche quello tra cliente e avvocato si può rescindere. La mancanza di fiducia è tra i motivi più gravi. Il cliente dovrebbe comunicare nel più breve tempo possibile le motivazioni della revoca, così come dovrebbe farlo nel modo più sincero possibile. Come abbiamo visto l’empatia tra cliente e avvocato è fondamentale, ma devi essere obiettivo però e non revocare il mandato solo perché l’avvocato ti ha sconsigliato una determinata azione che invece tu vuoi intraprendere.

Ovviamente non si può cambiare avvocato per evitare di pagare il suo onorario. Ci si informa prima delle eventuali parcelle, in modo da non avere brutte sorprese. Tuttavia, se l’entità delle parcelle dovesse essere spropositata ci si può rivolgere direttamente all’Ordine.

Chiaramente anche l’avvocato può rinunciare all’incarico, così come recita l’art. 14/1 LPF, “L’avvocato ha piena libertà di accettare o meno ogni incarico. Il mandato professionale si perfeziona con l’accettazione. L’avvocato ha inoltre sempre la facoltà di recedere dal mandato, con le cautele necessarie per evitare pregiudizi al cliente.”

Se l’avvocato rinuncia all’incarico, secondo quanto stabilito dall’art. 47 del Codice Deontologico Forense, è tenuto a fornire al cliente e all’avvocato che gli subentra, tutte le informazioni necessarie affinché il caso segua il suo iter.

Se ti ritrovi ad avere bisogno di chiarimenti o se stai cercando un avvocato competente nell’ambito di risarcimenti per malpractice mediche e sinistri stradali, sappi che il mio studio ti dà la possibilità di avvalerti della chance di una pre-analisi multidisciplinare (legale e medico-legale) del tuo caso.

Malasanità: come valutare quando conviene l’azione legale

Quando è conveniente fare causa in caso di errore medico? Come scegliere l’avvocato giusto: che faccia una attenta analisi preliminare e che sappia indicarci davvero se valga la pena procedere o meno con una causa.

Azione legale: è sempre possibile, ma non sempre consigliata

Purtroppo nel mare magnum dei professionisti – qualsiasi sia il loro campo di lavoro – si trovano quelli più cauti e solerti e quelli che invece preferiscono rischiare, per un motivo o per l’altro, più o meno etico, e procedere – troppo spesso ed a cuor leggero – con l’azione giudiziaria, anche in un campo particolarmente impervio come in materia di malasanità.

Per questo bisogna sempre porsi prima di tutto una domanda: conviene sempre fare un’azione legale per denunciare un errore medico?

All’avvocato sicuramente sì, soprattutto se si fa pagare tradizionalmente “a parcella”, a prescindere dall’esito della controversia.

All’assistito, invece, non sempre.

Vi sono dei casi in cui procedere non ha alcuna utilità, magari perché il fatto è difficilmente dimostrabile, o perché non ha provocato un danno apprezzabile in termini di invalidità permanente del soggetto leso.

In sintesi, un buon avvocato dovrebbe sempre valutare la fattibilità della causa e tenere in alta considerazione quelle che possono essere le reali possibilità di vittoria.

E, di conseguenza, valutare se un caso di responsabilità può avere un effettivo riscontro con esito positivo della causa o meno.

Certamente il consiglio non è quello di arrendersi in partenza, poiché come abbiamo visto, se da un lato è vero che è complicato in molti casi riuscire a ottenere il risarcimento, è anche vero che questo non è impossibile. Bisogna dunque agire con razionalità e cercare, prima di tutto, un legale che abbia una certa etica oltre che una certa esperienza in questo campo legale.

La ricerca di un buon legale non deve basarsi solo sul costo del suo onorario, ma soprattutto su quelle che sono le reali competenze nell’ambito della malasanità.

A quale avvocato rivolgersi

Molti di noi hanno, in un certo momento della loro vita, avuto bisogno di un consulto legale di varia natura o hanno un legale di fiducia. Si può dunque pensare di chiedere un consulto a questo avvocato per risolvere il nostro problema legato a un errore medico o alla malpractice in generale.

Purtroppo però non è sempre così.

Certamente si può chiedere un’opinione al proprio legale di fiducia, ma è bene far esaminare attentamente il proprio caso a un legale esperto nel settore della malpractice.

Questo perché chi ha maturato esperienza in questo ambito può avere la capacità di valutare una causa e decidere se sia il caso di intraprendere un’azione legale vera e propria o sei invece non si possano percorrere altre strade.

In sostanza: perché solo un avvocato con esperienza in materia potrà dirvi se e come procedere per un risarcimento.

Quindi l’avvocato va scelto tenendo in considerazione questi elementi e non soffermandosi solamente su quello che è l’aspetto economico. Purtroppo però, senza fare troppi giri di parole, per molti il problema dell’onorario dell’avvocato diventa uno scoglio insormontabile. Uno scoglio che diventa superabile se ci si appella a studi di avvocati che valutano prima attentamente il caso con una pre-analisi e poi vi propongono un’alternativa valida: il pagamento al risultato.

Conseguenze della Legge Gelli del 2017

‘8 marzo del 2017, è stata varata la Legge n.24 GU 17 marzo 2017 che reca Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, così come in fatto di responsabilità professionali di chi esercita le professioni sanitarie.

La legge Gelli/Bianco  nasce quindi per mettere ordine nel far west della responsabilità medica e della tutela dell’assistito.

Purtroppo, come spesso accade, se questa da una parte dà dei chiarimenti e delle normative interessanti, dall’altra non si dimostra sempre a favore del danneggiato.

Vediamo, nel concreto, due conseguenze della Legge Gelli – nel penale e nel civile:

  • Dal punto di vista penale, l’articolo 590-sexies per “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario” tende a escludere la punibilità del medico qualora il fatto si sia verificato a causa di imperizia, ma il professionista abbia rispettato le linee guida previste dalle società scientifiche.

  • Per quanto concerne l’ambito civile, invece, il danneggiato ha solamente 5 anni per agire contro il medico che ha cagionato il danno e 10 contro la struttura.

Giova precisare che per fortuna nella maggior parte dei casi ci si troverà dinnanzi ad illeciti contrattuali, e sarà l’avvocato a dover fare del proprio meglio per ricondurre sempre in questo alveo la causa, ad esempio valutando di coinvolgere solo alla struttura, e solo in rari casi il medico personalmente.

La mediazione

Prima di procedere per via giudiziaria, nel caso della responsabilità civile, si è tenuti a tentare, in prima istanza, una mediazione tra ambo le parti.

Cosa vuol dire?

Semplicemente che si può arrivare a un accordo con il medico o con la struttura senza dover arrivare a una vera e propria azione legale e dunque processuale. Questo è stato fatto, sostanzialmente, per consentire ai danneggiati di ottenere comunque un risarcimento danni, ma soprattutto per non andare a intasare ulteriormente i tribunali italiani che, come è ormai noto, sono al limite delle loro capacità.

Quindi la mediazione si presenta come un procedimento preliminare a quella che potrà essere la causa giudiziaria e che a seconda della tipologia del risarcimento richiesto può essere un passaggio obbligato del richiedente. Il percorso di mediazione ha solitamente una durata di massimo tre mesi, lasso di tempo necessario al mediatore, che deve essere una persona terza, estranea quindi ad ambo le parti e professionalmente idonea.

La mediazione si può concludere con un esito positivo, sottoscrivendo un accordo, o con un esito e verbale negativo, quando le due parti non trovano l’accordo economico congruo per entrambe e dunque si deve necessariamente procedere per via giudiziaria.

Cosa deve verificare l’avvocato

Un buon avvocato però, prima di far procedere il cliente verso un percorso legale, deve essere in grado di valutare la sua situazione. Solo con una una valutazione attenta del caso l’avvocato può capire e decidere quando è il caso di procedere oppure no.

Solamente l’avvocato esperto ha una certa perizia e comprende quale possa essere la via più corretta, esaminando precisi elementi.

Uno di questi è costituito dalla documentazione medica che il danneggiato deve produrre. Chi ritiene di aver subito un danno per malpractice medica deve sottoporsi a diverse visite. Vi sono casi in cui l’errore è lapalissiano, come nel caso di pazienti operati all’arto sano invece che a quello che necessitava di intervento. In questo caso è abbastanza semplice determinare una colpa o della struttura o del medico.

Vi sono però anche casi decisamente più complessi dove a fare la differenza sono le sfumature. In queste circostanze occorre una visita medica accurata da parte di un medico legale, atta a valutare le lesioni subite. Inoltre, se il danneggiato potesse produrre attestazioni inerenti la sua precedente condizione, faciliterebbe notevolmente il lavoro dell’avvocato.

Facciamo un esempio.

L’esempio può essere quello di un paziente che deve subire un intervento di protesi all’anca e che prima dell’intervento riesce a deambulare, sebbene con dolore e difficoltà. Ebbene, se dopo l’intervento quel paziente non deambula più, per troppo dolore o per mal funzionamento delle articolazioni interessate dall’intervento, è molto probabile che questi abbia subito un danno durante l’operazione. In questo caso si deve dimostrare il nesso causa effetto. Solo l’avvocato esperto potrà valutare le possibilità di vittoria e consigliare, al meglio, secondo coscienza, il proprio assistito.

Responsabilità medica e Legge Gelli: fare causa direttamente all’assicurazione dell’ospedale?

Nel 2017 la Legge Gelli ha dato chance e fiducia a chi volesse richiedere un risarcimento per responsabilità. Perché? Perché la legge prometteva la possibilità di chiamare in causa – direttamente – l’assicurazione del medico e dell’ospedale. A due anni di distanza come sono andate le cose? Un ritratto a luci ed ombre e delle indicazioni – concrete – su come avere giustizia, anche attraverso le strette maglie di una giurisprudenza lacunosa e difficile.

Dopo l’emanazione della Legge Gelli nel 2017, ho tirato un sospiro di sollievo.

Finalmente si scriveva nero su bianco, in una Legge della Repubblica, che il paziente danneggiato da responsabilità medico-sanitaria avrebbe potuto chiamare in causa, oltre all’ente ospedaliero ovviamente responsabile, anche la compagnia assicurativa di quest’ultimo.

Così il danneggiato poteva uscire dai labirinti burocratici dell’ospedale e rivolgersi direttamente anche a chi effettivamente avrebbe, in ultima analisi e nella (presunta) maggioranza dei casi, messo mano al portafogli per risarcire il danno (cioè l’assicurazione – presuntivamente).

Ma perché tutti questi “presunto” e “presuntivamente”?

Perché le cose, dopo due anni e mezzo dalla suddetta legge, non sono per niente andate così.

Il lato oscuro – la legge non è stata attuata: quali le conseguenze? Possiamo chiamare in causa le assicurazioni?

Il problema è in sostanza il seguente: la Legge Gelli ha giustamente previsto che, prima che fosse concesso al danneggiato di chiamare in causa anche l’assicurazione, dovessero essere stabiliti con precisione “i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie”.

Questi requisiti minimi avrebbero dovuto essere determinati con dei “decreti attuativi” della Legge, che dovevano essere emanati entro 120 giorni (quindi entro agosto 2017).

Tali decreti, dopo oltre due anni, non sono ancora stati emanati.

La nefasta conseguenza di tale inattività ministeriale consiste nell’impossibilità di dare attuazione alla legge, in particolare alla norma in cui è previsto il diritto del soggetto danneggiato “… di agire direttamente, entro i limiti delle somme per le quali e’ stato stipulato il contratto di assicurazione, nei confronti dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private …”

Si può ovviare al problema e chiamare ugualmente in causa le assicurazioni?

La legge per fortuna ha lasciato uno spiraglio: anche in mancanza dei decreti attuativi, sussisterebbe una remota possibilità (interpretativa) di chiamare in causa le assicurazioni nella fase pre-contenziosa .

Per “possibilità interpretativa” intendo dire “possibilità di interpretare la legge in modo tale da” poterne desumere la facoltà di chiamare in causa l’assicurazione nel procedimento di ATP.

Con tali premesse, in alcuni casi “pilota” ho chiamato in causa l’assicurazione.

Questo è purtroppo una possibilità che si può vagliare solo conoscendo le prassi e gli indirizzi giurisprudenziali di ciascun singolo tribunale.

Un paio di esempi pratici, uno dei quali estratto da una mia causa:

  • Alcuni provvedimenti del tribunale di Milano hanno di fatto negato, per questioni per lo più di carattere “pratico”, la possibile presenza nel procedimento di ATP della compagnia assicurativa. Si è ritenuto che chiamare in causa l’assicurazione in questa fase (ATP), non sarebbe stata una soluzione efficace poiché – in assenza dei decreti attuativi – non sarebbe poi stato possibile proseguire la causa continuando a coinvolgere l’assicurazione, nel caso in cui l’ATP non fosse stato sufficiente a raggiungere un accordo transattivo.

  • In un altro mio caso presso il Tribunale di Bergamo, invece, il Giudice ha concesso la partecipazione dell’assicurazione all’ ATP.

Per quest’ultimo felice caso si legga la parte evidenziata in giallo dell’ordinanza del 16 Gennaio 2019, Trib. Bergamo, Dott. Del Giudice.

Questo è stato un ottimo risultato: una scossa al sistema ed un campanello d’allarme per le lobbies assicurative.

Legge Gelli: le buone notizie (in sintesi)

La Legge Gelli ha comunque portato con sé alcune buone notizie. Vediamone assieme alcune:

  • Ha riformato il contenzioso sanitario con nuovi approcci conciliativi e norme che hanno di fatto migliorato ed accelerato i contenziosi. Purtroppo, l’assenza dell’assicurazione in giudizio – intento dichiarato, ma non attuato – ha creato gravosi intoppi.

  • In alcuni casi il sistema è stato benevolmente “forzato”, ed i Giudici hanno concesso la chiamata in causa dell’assicurazione in ATP (come da mia esperienza relativa alla causa presso il Tribunale di Bergamo, riportata nel paragrafo precedente).

L’attuazione della legge è vicina

Tra poco la norma sarà finalmente attuata tramite l’emanazione dei decreti (vedi questo articolo) ed i danneggiati vedranno ampliati, finalmente, i loro diritti, poiché potranno chiedere i danni direttamente all’assicurazione dell’ente ospedaliero.

Nello stesso modo in cui, da molti anni, avviene per i casi di lesioni personali a seguito di sinistri stradali.

Errore medico: cos’è e come ottenere giustizia

Uno sguardo di insieme all’errore medico per capire: quando si profila, quando c’è responsabilità penale e quando c’è responsabilità civile. E soprattutto come si inoltra una richiesta di risarcimento danni e quanto tempo si ha prima che subentri la prescrizione.

I tipi di errore medico

Parliamo di errore medico quando un paziente viene ingiustamente danneggiato. L’errore medico può essere causato per errata diagnosi, mancata diagnosi o terapia errata e avviene, ovviamente, nel modo del tutto involontario.

Vediamo uno per uno i diversi tipi di errore medico:

  • Errata diagnosi: quando il medico sbaglia nell’effettuare la diagnosi al proprio paziente. L’errata diagnosi può consistere nella rilevazione di una patologia di cui in realtà il paziente non soffre, oppure quando non viene diagnosticata una patologia esistente, oppure nel caso in cui la diagnosi avvenga in ritardo.

  • Mancata diagnosi: quando il medico non riesce a diagnosticare una patologia. Per esempio se ci si reca in pronto soccorso per un dolore all’addome, un’appendicite non viene diagnosticata e il paziente va in peritonite e muore, ci si ritrova davanti ad un caso di mancata diagnosi.

  • Terapia errata: quando un dottore somministra una terapia che si rivela non esatta, anche in conseguenza di una errata diagnosi o in conseguenza a un errore materiale – come magari quando a un paziente viene somministrata la terapia del vicino di letto in ospedale.

  • Errore tecnico-operatorio: nel caso in cui la tecnica operatoria si sia rivelata non correttamente eseguita. Solitamente provoca lesioni permanenti e danno biologico (ad esempio: taglio di un nervo, lesione corda vocale, ecc…)

Oltre all’errore medico cagionato per questi motivi si può qualificare come fonte di responsabilità medico-sanitaria quella dovuta a carenze strutturali dell’ospedale all’interno del quale opera il medico. Tuttavia quest’ultimo, in tal caso, potrà poi eventualmente rivalersi sulla struttura stessa, qualora sia condannato a versare un risarcimento.

Quando si profila l’errore medico

L’errore medico diventa fatto illecito se viene riconosciuto il nesso causa-effetto che lo ha cagionato. Il paziente dovrà dunque sottoporsi a una visita medico-legale atta a quantificare il danno subito.

Si procede poi assieme a un legale di fiducia che dovrà, appunto, dimostrare il nesso causa-effetto del danno, e non sempre questo è semplice.

Un errore medico, quindi, non rende responsabile il medico in automatico, ma occorre una accurata istruttoria.

Responsabilità penale: assente se c’è ragionevole dubbio

Come abbiamo già visto, in caso  di denuncia penale del medico, poniamo caso per un omicidio colposo, riuscire a dimostrare il nesso tra causa ed effetto è fondamentale per ottenere la vittoria. Per asserire con assoluta certezza che si tratti di un caso imputabile a un errore medico il nesso tra causa ed effetto deve essere chiaro e non deve dare adito ad alcun dubbio.

Fa storia il caso di un paziente che presentava una patologia molto grave. Tale patologia non è stata diagnostica al tempo del ricovero in ospedale e il paziente è morto.

Ora, attribuire la causa del decesso al medico, che comunque non ha diagnosticato il male del paziente, è complicato se quella malattia viene considerata una patologia con esito letale e dalla quale il defunto non si sarebbe potuto salvare, nemmeno agendo fin da subito su di essa. In questo caso il medico viene assolto.

Invece, la responsabilità penale sussiste laddove venga provato un reale nesso tra causa ed effetto, quindi tra la condotta negligente o imprudente del medico e il danno cagionato al paziente, nesso evidente e chiaro e che non lascia adito a dubbi.

Per esempio basti pensare a una problematica non diagnosticata durante il parto e alla morte della mamma e del bambino, in questo caso se il medico fosse stato più accorto e prudente madre e figlio si sarebbero potute salvare.

Quando c’è responsabilità civile?

Per quanto riguarda l’aspetto civilistico, invece, ci troviamo davanti a due tipi di responsabilità:

  • Contrattuale: quando si disattende quanto sancito in un contratto.

  • Extracontrattuale: quando si commette un fatto illecito.

In caso di responsabilità contrattuale (la più consueta e diffusa) sarà il medico a dover dimostrare di aver fatto tutto l’umanamente possibile per evitare l’evento dannoso, altrimenti sarà condannato.

Poniamo caso che un intervento di appendicectomia non abbia un buon esito, o non abbia l’esito che ci si attende. In questo caso la mancanza del risultato fa presumere l’inadempimento del medico al contratto col paziente, a cui basta dimostrare che l’intervento era di facile esecuzione e che da questo, tuttavia, è derivato un peggioramento della situazione, per evidenziare la mancanza di diligenza e perizia del medico.

Quanto tempo si ha prima che il fatto vada in prescrizione

I termini temporali per agire devono essere attentamente rispettati, pena la prescrizione dell’illecito:

  • Se si ravvisa una responsabilità di tipo contrattuale, il termine massimo per la caduta in prescrizione del fatto è di 10 anni

  • Se ci si trova nell’ipotesi di una responsabilità extracontrattuale, il termine massimo per presentare richiesta di risarcimento è di 5 anni.

La prima cosa cosa da fare se si vuole un risarcimento danni

Dopo aver preso in esame quello che è l’errore medico, ovviamente ci serve capire come ci si può muovere in caso di lesioni colpose o decesso ascrivibili a una delle situazioni esaminate.

Come si deve quindi comportare chi ritiene o sospetta di essere vittima di un tale caso?

La prima cosa da fare è quella di conservare tutte le ricevute di eventuali visite e i referti. Meglio ancora se si hanno referti precedenti attestanti le condizioni di salute inerenti al periodo precedente al danno subito.

Un esempio: se si riporta una lesione a un arto in seguito a un errato intervento, dimostrare che in precedenza l’arto era perfettamente funzionante è di certo un punto a vantaggio del danneggiato. La consulenza di un legale in queste situazioni diventa non solo utile, ma indispensabile a seconda di quanto sia complicato dimostrare il nesso di causa effetto del danneggiato.

Il supporto legale

Per ottenere un risarcimento quindi ci si deve sottoporre a un esame clinico effettuato da un medico legale super partes che dovrà verificare la presenza del danno e la sua entità. Una volta refertato il danno ci si deve attenere alle tabelle del risarcimento, per quanto riguarda il danno biologico: attualmente le più utilizzate sono quelle de Tribunale di Milano.  Queste tabelle servono per quantificare il danno attribuendo a ciascun punto di invalidità permanente una quantità in denaro. Chiaramente il risarcimento potrà riguardare non solo il danno biologico, ma anche quello morale e patrimoniale a seconda dei casi.

Insomma, come ti sarà ormai chiaro, per avere giustizia e quindi ottenere un giusto risarcimento, ti saranno di fondamentale aiuto il consiglio ed il supporto di un avvocato provvisto di esperienza in questo specifico campo,. Soprattutto se si tiene conto anche del fatto che, fra l’altro, nella maggior parte dei casi la giurisprudenza si attiene alle casistiche già esaminate in precedenti sentenze.