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Risarcimento degli eredi per danno da morte. Quando il dolore non viene trattato

26 Novembre 2019

Quando si parla di malasanità, purtroppo, si aprono scenari che nessuno di noi vorrebbe mai conoscere. Ma nei diritti del malato rientra anche il diritto a non soffrire, ovvero ad una degenza dignitosa che tratti il dolore con terapie adatte. In special modo chi nega cure palliative al malato terminale si espone ad un illecito e per tale la famiglia può e deve essere risarcita.

Malato terminale, il diritto a non soffrire

Prima di procedere vediamo un po’ qual è la definizione di malato terminale.

Secondo il dizionario, malato terminale è colui che “entra nella fase irreversibile di una malattia mortale”.

Nel caso di malattie per le quali tutte le terapie sono ormai inutili, quindi in fase terminale, si può ricorrere alle cure palliative per poter stabilizzare la malattia e prolungare, ove possibile, la vita, oltre che naturalmente per lenire i dolori del malato terminale. Il paziente ha così diritto a non soffrire, con la pretesa di mantenere la qualità della vita restante accettabile. Di questo diritto inalienabile in Italia, rispetto al resto del mondo si parla ancora troppo poco, quasi fosse un tabù.

Cosa sono e come si ha accesso alle cure palliative

Le cure palliative constano di un insieme di trattamenti diagnostici, terapeutici e assistenziali rivolti soprattutto al malato, ma che sono rivolte anche al nucleo familiare.

A disciplinare questi trattamenti è la legge 38 del 15 marzo del 2010. Ogni singolo Stato, quindi, secondo il Consiglio d’Europa, dovrà garantire la prestazione di tali cure e assicurarsi che tutti i malati terminali vi abbiano accesso.

Gli Stati devono inoltre verificare che i parenti e gli amici siano adeguatamente supportati al fine di accompagnare il paziente terminale fino alla morte e prevedere, nel caso i parenti e gli amici non siano in grado, di fornire forme alternative e professionali di sostegno al paziente. Devono anche fornire un’efficiente assistenza a domicilio. Inoltre, devono essere garantiti inoltre eventuali trattamenti palliativi, purché il paziente lo consenta, anche se di fatto abbreviano la vita dello stesso.

Un’altra incombenza che spetta agli Stati è quella di fare in modo che per lo meno in ogni grande ospedale sia predisposto un Centro di cure palliative. Vanno inoltre sensibilizzati i cittadini per quanto riguarda il tema della medicina palliativa.

Se i medici oppongono resistenza

Quindi abbiamo una certezza: le cure palliative sono un diritto e sono normate.

Eppure, nonostante questo, si incontrano ancora, al giorno d’oggi, moltissime resistenze, perfino in quei Paesi che hanno ormai raggiunto un elevato livello di gestione della sofferenza del malato terminale. Vi sono infatti alcuni operatori e del diritto e della medicina che pensano ancora di poter applicare il loro personale discernimento al singolo caso.

Il problema fuorviante della questione è la possibilità che un determinato trattamento palliativo sia potenzialmente letale e abbrevi, a volte anche di parecchio, la vita del paziente terminale. Di cosa si tratta? Si tratta di trattamenti, per esempio oppiacei, che vengono somministrati in quelle situazioni definite talmente gravi e di grave malessere e sofferenza, da richiedere un’intensificazione del trattamento medesimo. Questo perché la dose concentrata e massiccia di oppioidi ha come effetto – talvolta –quello di accelerare la morte del paziente.

La teoria del doppio effetto

Questa teoria è stata elaborata al fine di rendere lecita la messa in pratica di trattamenti palliativi anche laddove avessero conseguenze normalmente inaccettabili ma che di fatto, non essendo cagionate in modo deliberato, divengono accettabili. Sarebbero quindi da ritenere deliberate nel caso in cui queste fossero oggetto principale del progetto d’intervento. Seguendo questo ragionamento, la somministrazione di cure palliative, anche ad alto livello, o invasive, di oppioidi ai pazienti terminali, viene ritenuta legittima, anche se appaia prevedibile che questo possa cagionare al paziente un accelerazione del sopraggiungere della morte.

Per poter soddisfare la teoria del doppio effetto devono però essere soddisfatti 5 requisiti:

  1. L’atto è raccomandato o moralmente neutro, somministrazione della morfina.

  2. Ci si pone il solo obiettivo positivo, quindi ridurre le sofferenze del paziente, non quello negativo, quindi cagionare la morte del paziente.

  3. La buona finalità non viene perseguita seguendo quella cattiva, quindi non si riduce la sofferenza del paziente accelerandone la morte.

  4. Sussiste una ragione valida in proporzione al rischio che induce al voler affrontare il rischio dell’effetto negativo.

  5. Il paziente dovrà sempre essere perfettamente informato su quelli che sono i rischi e i pericoli di un determinato trattamento palliativo, inoltre, laddove questo sia possibile, egli dovrà esprimere esplicito consenso a tale riguardo.

 

Il trattamento del dolore in Italia

Dal punto di vista della nostra Costituzione, il diritto a non soffrire trova ampio accoglimento, laddove si proclama la tutela dei diritti inviolabili dell’individuo e che, a grandi linee, sanciscono anche quelli che sono i principi del rispetto della dignità della persona. Il mancato ricorso agli strumenti che attualmente sono in nostro possesso per lenire le sofferenze del malato terminale costituisce un attentato a questa particolare prerogativa del malato (come specificato dall’art. 37 del codice deontologico medico del 1998).

Vi sono però ancora numerose resistenze in Italia dovute principalmente a fattori culturali che vedono il dolore come un sintomo della malattia e che per tanto non deve essere combattuto in quanto fine a se stesso.

Ci sono d’altronde poche strutture ospedaliere idonee e con le attrezzature adeguate per accogliere i malati terminali che desiderano trattare il dolore con le terapie adatte e, ultimo ma non ultimo, ben pochi fondi vengono investiti nella ricerca in tal senso. Anche l’utilizzo di farmaci oppioidi ha sollevato non poche controversie.

Il dolore non viene trattato? Si commette un illecito

Se le cure palliative non vengono erogate al malato terminale si commette un illecito, pertanto condannabile e il danno che ne scaturisce è motivo di risarcimento danni.

Purtroppo ancora oggi, come già abbiamo anticipato prima, vi sono medici che per il personale credo religioso, morale o umano, negano al malato terminale cure palliative che gli consentano di morire serenamente e dignitosamente.
Emblematico a tale proposito un caso accaduto a Bologna e giudicato dal relativo Tribunale.

Il protagonista era un paziente oncologico terminale che era stato ricoverato a causa della comparsa di difficoltà respiratorie importanti. Appena ricoverato, le condizioni del paziente non sembravano necessitare di cure palliative, ma dopo una settimana di degenza le condizioni erano ben cambiate e il paziente mostrava un quadro clinico tale che richiedeva tali trattamenti. Questi però non venivano somministrati.

In seguito alla morte del malato i familiari presentavano denuncia contro il medico e l’ospedale, mettendo in rilievo come le cure palliative erano state negate intenzionalmente dal medico primario a causa di sue specifiche condizioni etiche.

Il CTU rilevava quindi che il paziente, negli ultimi giorni di vita, necessitava assolutamente di cure palliative dato che la difficoltàrespiratoria era sempre più evidente e accompagnata anche da agitazione psicomotoria con la quale il paziente chiedeva di morire.

La conclusione del CTU era dunque che i sanitari del nosocomio bolognese avevano violato le Linee Guida relative a simili circostanze e che tra sofferenza patita dal paziente e mancata erogazione delle cure palliative vi era una correlazione causale.

La sentenza? Medico e ospedale condannati a risarcire gli eredi del paziente: il Giudice aveva preso atto della normativa, la legge n° 38 del 2010, che obbliga le strutture sanitarie a prestare assistenza ai pazienti e ai loro familiari al fine di tutelarne la dignità (del malato) e migliorarne la qualità della vita fino al termine di essa.

Risarcimento per danno morale

A essere stato risarcito dunque, è stato il danno morale, che ristora la lesione alla dignità della persona in conseguenza alla sofferenza subita ingiustamente negli ultimi giorni di vita per non aver potuto fruire dei trattamenti palliativi.

Il danno non può essere ascritto all’ambito del danno non patrimoniale biologico, ma bensì va inteso come danno morale per l’ingiusta sofferenza patita.

Il risarcimento danni viene nel caso di cui sopra è stato quindi liquidato alla vedova e ai figli della vittima secondo le Tabelle di Milano del 2016 dove vi è anche una sezione dedicata alla stima del danno terminale. Inoltre, la vedova ha ottenuto un risarcimento iure proprio per il danno biologico subito a causa delle sofferenze del coniuge alla quale la stessa donna aveva assistito senza poter fare nulla.