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Il batterio killer di Verona – come provare la responsabilità dell’ente in caso di infezione

16 Settembre 2020

Il terribile caso del batterio Citrobacter a Verona: analisi e risvolti legali di uno dei casi più macroscopici di malpractice avvenuti in Italia.

E’ noto alle cronache di questi giorni il caso di Verona, ove ben novantasei neonati sono stati contagiati. Nove piccoli hanno riportato gravissimi danni celebrali e quattro sono purtroppo già deceduti.

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Responsabile di tutto ciò è il citrobacter, che dalle prime risultanze istruttorie pare essersi annidato da anni nei rubinetti dell’acqua dell’ente ospedaliero, privi del filtro antibatterico.

Da subito si delinea una pesantissima responsabilità in capo all’ospedale veronese, che certamente subirà azioni penali e civili, di carattere risarcitorio, da parte dei genitori dei piccoli e sfortunati ospiti.

Ho scritto vari articoli su questo blog in merito agli interventi legislativi che hanno interessato la materia “malpractice medica” negli ultimi anni; faccio riferimento alla legge Balduzzi, ma ancor più specificamente alla legge Gelli del 2017.

Tuttavia in tema di risarcimento per infezione ospedaliera, pur vigendo le regole generali imposte dalla legge, sono le pronunce giurisprudenziali e le perizie medico-specialistiche a dettare gli approcci più corretti all’analisi. Vediamo in questo articolo quali sono i passaggi per impostare il contenzioso civile in maniera efficace.

Azione civile contro l’ospedale o contro i singoli medici?

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Il caso di Verona è denso di risvolti affettivi assai profondi, viene infatti naturale immedesimarsi nei genitori di quelle piccole ed innocenti vittime di un sistema indifferente.

Sembra impossibile che un ospedale situato nel produttivo nordest, per anni abbia sopportato l’assenza di elementari misure igieniche adeguate ad impedire la strage che di fatto si è verificata, tanto più se si osserva che – a quanto sinora è dato sapere – sarebbe stata sufficiente l’applicazione ai rubinetti di comunissimi filtri facilmente reperibili ovunque.

Sono attualmente quattro – ma probabilmente a brevissimo saranno ben più – le persone coinvolte nel triste caso del batterio killer: provvedimenti di sospensione disciplinare sono stati comminati alla direttrice sanitaria, alla direttrice medico-ospedaliera, al primario di pediatria, alla direttrice del reparto di microbiologia.

Tuttavia anche in questo caso, la cosa migliore che possano fare i danneggiati è quella di lasciare lavorare la Procura della Repubblica affinché rilevi le responsabilità penali e commini le giuste pene agli autori del grave eccidio.

Dal punto di vista del contenzioso civilistico-risarcitorio, invece, il consiglio è sempre quello di dirigere l’azione solo ed esclusivamente contro l’ospedale – e non contro le singole persone fisiche coinvolte. La legge ci consente di agire in tal modo, evitando così di incappare in continui “scarica-barile” tra il personale medico sanitario.

Le responsabilità dei singoli, dipendenti dell’ente, ricadono su quest’ultimo. L’innovazione della legge Gelli riguarda infatti la posizione dei sanitari-dipendenti: i maggiori oneri relativi ai contenziosi sono stati spostati sulle strutture e sulle loro assicurazioni. Inoltre, rivolgendosi direttamente all’ospedale, si agisce secondo l’istituto della responsabilità contrattuale, che è molto più favorevole al danneggiato rispetto al meccanismo della responsabilità extracontrattuale.

Elementi probatori a sostegno del danneggiato nei casi di infezione ospedaliera

Nell’ipotesi di infezione contratta in ambito nosocomiale, grava sul danneggiato l’onere di provare:

  1. l’esistenza del contratto di spedalità (cioè il fatto che il paziente sia stato ricoverato proprio in tale struttura),
  2. l’insorgenza o l’aggravamento della patologia, oltre al
  3. nesso causale tra l’infezione ed il conseguente danno.

Sono questi i criteri che dominano la responsabilità contrattuale.

Molto più arduo sarebbe invece l’onere in regime di extracontrattualità, ove il danneggiato dovrebbe provare altresì la sussistenza di una concreta responsabilità per colpa.

Ovviamente, nel caso di Verona sussistono ulteriori elementi probatori a favore dei danneggiati, tra cui:

  1. l’evidenza che dal 2017 sono stati effettuati oltre tremila tamponi, ed in 413 è stato trovato il Citrobacter Koseri.
  2. Il fatto che il fenomeno sia stato quindi ampiamente sottostimato e tardivamente riconosciuto, portando agli attuali decessi per evidente negligenza.
  3. l’evidenza che dal 2018 al 2020 i casi risultano correlati e collocati sempre nella terapia intensiva neonatale e pediatrica.

Come potrebbe “scagionarsi” l’ospedale?

In un solo modo: dimostrando di avere diligentemente operato,

  1. sia sotto il profilo dell’adozione, ai fini della salvaguardia delle condizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirurgica eventualmente adoperata, di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative, onde scongiurare l’insorgenza di patologie infettive a carattere batterico,
  2. sia sotto il profilo del trattamento terapeutico prescritto e somministrato al paziente dal personale medico, successivamente alla contrazione dell’infezione.

Trattasi di “Probatio diabolica”, cioè di una prova quasi impossibile da fornire.

E’ prassi dell’ospedale, in casi di questo genere, produrre in giudizio tutta la documentazione sanitaria ed amministrativa comprovante la corretta sanificazione degli ambienti e le adeguate procedure per evitare infezioni e batteri.

Nel caso che ci occupa, anche se siffatta documentazione fosse in astratto disponibile ed esistente, potrà comunque essere assai semplicemente invalidata da presunzioni legali e prove testimoniali, così come i racconti, le foto ed i video dei genitori dei bambini, che – come rilevano le cronache di questi giorni – hanno più volte catturato comportamenti irresponsabili quali:

  1. medici e personale sanitario, in un ambiente sterile, senza i guanti e la mascherina;
  2. soggetti esterni che entravano in reparto senza nessun camice, con le scarpe sporche, trasportando oggetti privi di contenitore sterile;
  3. uso promiscuo di cellulare in ambienti presuntamente sterili e protetti, ecc…

Cosa puoi fare, adesso

La materia è difficile ed ampiamente sfaccettata, perciò consiglio sempre di chiedere la consulenza di un avvocato esperto e competente.

Nel mio studio è pratica comune svolgere una pre-analisi approfondita del caso che ci viene sottoposto: chiunque si trovi nella necessità di dover richiedere un risarcimento per malpractice medica può mettersi in contatto con noi  per spiegarci nei dettagli la vicenda di cui è stato vittima. Sarà nostra cura analizzare la posizione con rigore scientifico, sia in relazione alle linee guida mediche, sia alle probabilità di far valere vittoriosamente i Tuoi diritti.